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I talenti inespressi che potrebbero far volare creatività e innovazione

La ricerca scientifica correla, con sempre maggiori evidenze, creatività e un alto QI ai disturbi dell'umore. Superare lo stigma a riguardo consentirebbe di valorizzare risorse umane pregiate

Enrico Deplanodi Enrico Deplano   
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Ottobre è il mese in cui si celebra la giornata mondiale per la salute mentale. E' un momento che può dire qualcosa a proposito dell'innovazione strategica. Esiste infatti una precisa correlazione, anche se non immediatamente evidente.

E' ovvio collegare il tasso di innovazione di un’economia alla qualità della ricerca scientifica e tecnologica che si riesce a catalizzare in una nazione, sia nel settore privato che in quello pubblico. Ma cosa consente a uno stato nazionale di disporre di una ricerca scientifica adeguata? Al di là della predisposizione di atenei, enti, imprese, incubatori, servizi, centri, infrastrutture e finanziamenti, ciò che conta, alla fine, sono i cervelli.

Come è noto i talenti si coltivano attraverso l’istruzione superiore, ma l’utilizzo dei talenti presenti in uno stato spesso non basta e le nazioni più avanzate competono nell’attrarre ricercatori dall’estero. Se si spende tanto per favorire un processo di brain drain da altri paesi, esiste una precisa ragione. In genere si parla di human resources in possesso di skills pregiati, ma a fare la differenza non sono solo le competenze. E’ la creatività il lievito del processo di innovazione.

E’ il caso, dunque, di chiedersi in quale genere di mente alberghi la creatività. Al di là dell’abusato clichet genio-follia, negli ultimi decenni la ricerca scientifica ha svolto un’immensa mole di studi che correlano statisticamente elevato quoziente intellettivo e disturbi dell’umore. In Norvegia il campione era la totalità della popolazione, perciò si inizia a credere che si tratti di un’associazione sistematica, ovvero non eccezioni ma regola. Le neuroscienze, indagando ormai la mente attraverso le scansioni attive cerebrali, confermano tale assunto.

C’è una conseguenza semplice e lineare: se a consentire l’innovazione sono la creatività e l’intelligenza e queste risultano associate a sindrome bipolare e altri disturbi dell’umore, forse sarebbe il caso di valorizzare e utilizzare chi ha questa dotazione e iniziare a eliminare lo stigma sociale che l’ignoranza in materia ancora determina diffusamente.

Sarebbe ora di passare da una vecchia concezione patologizzante a una valorizzazione delle persone intellettualmente dotate che hanno disturbi dell'umore quali sindrome bipolare, ansia, depressione. Ciò consentirebbe di riqualificare risorse umane inutilizzate, sfruttando potenzialità che restano solo latenti perchè abbandonate. La sfida è di investire in esse per migliorare la cifra antropologica nazionale, fino a integrarle, ove possibile, nella classe creativa del Paese. Può apparire utopico solo perchè sussiste un pregiudizio. Che andrebbe superato perchè ha costi sociali ed economici sempre più insostenibili.

La competizione tra stati si gioca anche sul piano culturale, non come mero brand delle glorie già note di una nazione, ma anche in termini di coltivazione del talento ovunque esso sia, senza discrimini. Non si dovrebbero contrastare solo i pregiudizi di genere ma anche quelli legati all’età o allo stigma della cosiddetta malattia mentale. Dovremmo iniziare a chiamarli disturbi dell’umore, non per eufemismo politicamente corretto, ma per senso di realtà. Malattia mentale fa supporre al pubblico medio che qualcuno abbia un deficit cognitivo e capacità mentali inferiori, mentre spesso chi soffre di disturbi dell’umore ha un quoziente intellettivo più elevato della media nazionale e doti di creatività.

Per civiltà e buon senso si dovrebbe offrire, a chi rientra in questa condizione, la possibilità di un tirocinio mirato a un reintegro lavorativo in ruoli non protetti ma pieni. La prospettiva di rimontare in sella e di contribuire al benessere collettivo usando le proprie effettive capacità sarebbe un mezzo straordinario di guarigione. Come scrisse George Santayana, “Non esiste peggiore sofferenza per una mente intelligente che essere costretta a non usare la propria intelligenza”.

E' possibile recuperare coloro che soffrono di disturbi dell'umore ma sono intellettualmente dotati, per farne cittadini attivi. Ciò, oltre che corrispondere a un progresso sociale, andrebbe a beneficio delle casse statali: sarebbe possibile recuperare pensioni di invalidità, si avrebbero nuovi lavoratori in grado di generare reddito e pagare tasse. Ma soprattutto si potrebbe avere un contributo di creatività utile in vari modi all’innovazione. Ciò prima o poi accadrà ovunque. Se l’Italia adottasse tale visione lungimirante si porrebbe all’avanguardia in tale processo.

Enrico Deplanodi Enrico Deplano   
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