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Social dannosi, la drastica decisione del Nepal può essere un modello per tutti?

Michael Pontrellidi Michael Pontrelli   
Social dannosi, la drastica decisione del Nepal può essere un modello per tutti?
Foto Ansa

Il Nepal ha messo al bando TikTok. Il ministro delle comunicazioni nepalese, Rekha Sharma, senza tanti giri di parole ha spiegato alla BBC che la piattaforma diffonde “contenuti dannosi per l’armonia sociale”. “Il divieto – ha proseguito - divieto entrerà in vigore immediatamente e le autorità delle telecomunicazioni sono state incaricate di attuare la decisione".

Per motivi diversi Tik Tok è bandito anche in India, Iran, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Indonesia, Armenia, Azerbaijan e nello Stato americano del Montana. Il suo utilizzo è proibito ai funzionari dell’Unione Europea, degli Stati Uniti, della Danimarca, del Belgio, del Canada, del Regno Unito e della Nuova Zelanda.

Non si può certo dire che il social cinese sia amato da tutte le istituzioni del pianeta. Nei paesi occidentali e in India le restrizioni sono state introdotte per il timore che la piattaforma possa trasmettere i dati al governo cinese. La società madre di Tik Tok, ByteDance, ha categoricamente smentito ma questo non ha impedito il bando.

La decisione annunciata da Kathmandu non ha però a che fare con i timori sullo spionaggio cinese ma riguarda la pericolosità dei contenuti veicolati sulla piattaforma e questa è una novità assoluta nell’ambito delle democrazie (il Nepal è una repubblica parlamentare). La decisione del governo non è supportata da tutte le forze politiche del paese. Anche all’interno della stessa maggioranza ci sono voci contrarie che contestato il bando in quanto limitativo della libertà di espressione.

Le critiche alla decisione del governo di Kathmandu sono senza alcun dubbio giustificate, ma senza timore di apparire liberticidi si può comunque affermare che i social network in generale sono stati una delle più grosse delusioni nella storia del web.

La nascita di Facebook e di Twitter sono state accolte con entusiasmo. La piattaforma di Mark Zuckerberg ha semplificato il contatto tra le persone, quella creata da Jack Dorsey ha rivoluzionato la comunicazione politica e non solo. Anche l’avvento di Instagram ha rappresentato un momento felice soprattutto per gli amanti della fotografia.

Nel tempo però le piattaforme sono cambiate. I contenuti sono diventati sempre più frivoli e superficiali e c’è stata una vera e propria esplosione di quelli denigratori (ovvero del cosiddetto hate speech), ingannevoli e manipolatori (ovvero propagandistici). I social consentono a chiunque di pubblicare contenuti senza alcun controllo sulla loro rilevanza o veridicità. Nonostante i diversi tentativi fatti, le piattaforme non sono mai riuscite a contrastare il problema.

L’avvento di Tik Tok ha rappresentato un ulteriore cambiamento: la diffusione di contenuti sempre più leggeri e di breve durata. Il successo della piattaforma (soprattutto tra i giovani) ha spinto tutte le altre (in particolare quelle di Meta, ovvero le più importanti) a copiare il modello che non è esattamente un esempio virtuoso.

Secondo un recente studio condotto dal Center for Countering Digital Hate (Centro per contrastare l'odio digitale) su utenti 13enni negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Canada e in Australia, l’algoritmo di TikTok "inonderebbe i ragazzi di contenuti che danno loro una visione estremamente distorta di se stessi, dei loro corpi, della loro salute mentale e di come si confrontano con le altre persone".

La conclusione shock della ricerca è decisamente preoccupante. L'algoritmo “riconoscerebbe la vulnerabilità e invece di vederla come qualcosa su cui dovrebbe stare attento, la vede come un potenziale punto di dipendenza sui cui fare leva per massimizzare il tempo di permanenza sulla piattaforma, con la conseguenza di far esplodere alcune problematiche preesistenti”.

Negare che i social, e Tik Tok in particolare, stiano creando problemi (in particolare tra i più giovani) significherebbe negare la realtà. Metterli al bando (come sta facendo il Nepal) non è certamente la strada giusta ma allo stesso tempo non si può non pretendere un atteggiamento più rigoroso da parte delle istituzioni competenti per mettere un freno agli algoritmi delle piattaforme.

Servirebbe la nascita di un’ecologia dei social simile a quella sorta per affrontare la questione ambientale. Tra qualche decennio ripensando alla regolamentazione attuale dei social network si potrebbe provare lo stesso ribrezzo che oggi  si prova pensando al modo in cui le industrie occidentali inquinavano impunemente negli anni ’50 o ’60 del 1900. Allora non c’era una consapevolezza diffusa dei danni provocati dall’inquinamento, esattamente come oggi non c’è una consapevolezza diffusa dei danni che stanno provocando i social network.

 

 

Michael Pontrellidi Michael Pontrelli   
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