Oltre Musk: come le aziende tech ridefiniscono il potere e la comunicazione
Dalla rivoluzione digitale al dominio dell’informazione: come le big tech stanno riscrivendo le regole del potere.

L’aurora del nuovo millennio ha portato con sé più che un’evoluzione tecnologica, spalancando le porte ad un cambiamento culturale e politico che oggi, nel 2025, appare in tutta la sua complessità. Elon Musk e Donald Trump, figure di spicco tra le cosiddette old and new economy, incarnano un potere che sembra sfidare il vecchio ordine, proprio come avvertiva Jeff Bezos nel 2000. In quell’anno fatidico, il fondatore di Amazon prediceva una rivoluzione che avrebbe cambiato per sempre il panorama politico e mediatico, una visione che ora appare più attuale che mai.
Nel tempo, anche se la distinzione tra old e new economy è diventata sempre più sfumata, essa resta cruciale per comprendere il potere esercitato dai colossi tecnologici. La old economy rappresenta industrie manifatturiere e grandi conglomerati, basandosi su modelli di produzione e consumo consolidati. La new economy, invece, incarnata da aziende tech come Tesla, SpaceX e Meta, ha spostato il fulcro del potere verso l’innovazione digitale, la connettività globale e la gestione dell’informazione. Musk, con la sua influenza sui social media e il controllo di infrastrutture chiave come Starlink, rappresenta un caso emblematico di questa trasformazione: non solo un imprenditore, ma un attore politico e comunicativo in grado di ridefinire le regole del gioco.
Come se non bastasse, il mondo della comunicazione, con l’influenza crescente dei social media, è diventato incredibilmente più frammentato e diffuso. Musk sostiene che “You are the media now”, un motto che riflette una disintermediazione radicale, in cui il citizen journalism – lungi dall'essere una novità – è ormai una realtà consolidata. Tuttavia, se l’informazione è nelle mani della gente comune, occorre interrogarsi sulla vera libertà di espressione di chi vive sotto l’opprimente ombra dei colossi tecnologici.
Il declino del fact-checking e la strategia di Meta
Sembra che Meta abbia deciso di cambiare rotta, una mossa che non sorprende più nel dinamico universo tech tech. In un annuncio conciso, Mark Zuckerberg ha spiegato come l'azienda intenda ritornare alle sue "radici", ossia a un tempo in cui la libertà di espressione sembrava prevalere sulla vigilanza dei contenuti. Come? Con l’abolizione del programma di fact-checking negli Stati Uniti.
Meta ha scelto di sostituire questa misura con le Community Notes, un sistema che ricorda da vicino quanto già visto con X (ex Twitter). La responsabilità del controllo delle informazioni viene quindi affidata agli utenti stessi, una mossa che si presenta come democratica, ma che solleva interrogativi cruciali. Le restrizioni sui discorsi considerati dannosi sono state ridotte, favorendo di fatto un incremento delle espressioni potenzialmente problematiche sotto l'egida della "libertà di espressione".
La nuova strategia di moderazione, che di fatto si concentra solo sulle violazioni più gravi – come l'uso di droghe o lo sfruttamento dei minori – segna quindi un netto allontanamento dalla politica adottata nel 2016. Di fatto, se da un lato Meta promette "More Speech and Fewer Mistakes", dall’altro si espone alla possibilità di una proliferazione incontrollata di contenuti fuorvianti, rendendo più difficile distinguere il dibattito autentico dalla manipolazione strategica. Il prezzo di un’illusoria libertà di espressione potrebbe essere un ambiente digitale sempre più caotico, dove il confine tra verità e propaganda diventa labile.
Meta e altri giganti del tech promettono più libertà, ma il loro controllo sulle piattaforme solleva altri interrogativi sulla reale indipendenza delle voci emergenti. Le aziende tecnologiche, infatti, non si limitano a offrire spazi di discussione, ma determinano attivamente le regole del gioco, decidendo quali contenuti promuovere e quali oscurare. Questo crea un ambiente in cui la libertà di espressione non è determinata da principi universali, ma dai modelli di business delle piattaforme.
Esattamente come Rebecca Shaw scrive sul Guardian: "Sapevo che un giorno avrei dovuto guardare uomini potenti bruciare il mondo, ma non mi aspettavo che fossero degli sfigati simili". Parole aspre ma rivelatrici che sottolineano una visione del potere come una forza che si nutre della propria influenza, piegando alle proprie esigenze normative un tempo universalmente condivise.
Il giornalismo tradizionale si trova di fronte a una crisi senza precedenti. L’articolo del New Yorker dell’11 gennaio 2025 esplora il fragile equilibrio tra accuratezza e fiducia. Con l’erosione della credibilità giornalistica e la crescita della disinformazione, il rischio è che gli standard di veridicità vengano meno. Anche testate rinomate per il loro rigore nel fact-checking devono adattarsi alle nuove pressioni imposte dalla velocità dell’informazione online.
Dove stiamo andando?
Al centro di questa evoluzione, sorge una questione cruciale: come possiamo bilanciare libertà di espressione e responsabilità informativa in un'epoca dominata dall'incertezza e dalla polarizzazione? Forse la risposta sta nel riflettere su ciò che consideriamo veramente importante: più discorsi o meno errori?
Viviamo in un'epoca dove la tecnologia ha il potenziale di servire tanto il bene comune quanto le ambizioni di pochi potenti. E mentre il tempo scorre, resta il desiderio quasi utopico di un mondo dove il “pensiero libero” non sia definito dai vertici del dominio digitale, ma dalla consapevolezza collettiva.
Che ne sarà di noi? Forse la tecnologia cambierà davvero la politica, forse vinceranno i consumatori. Ma fino ad allora, l'autoconsapevolezza diventa fondamentale per navigare questa nuova era con gli occhi aperti e un sano scetticismo.