Come si possono "monetizzare" i nostri dati e migliorare la qualità della vita nelle città?

Analisi di esperienze nazionali ed internazionali su come generare valore per l'impresa, il cittadino e la città tramite l'uso dei dati

Quali modi per 'monetizzare' i nostri dati e migliorare la qualità della vita nelle città?
Foto Pixabay

Si parla sempre più di varie forme di monetizzazione dei dati e la citazione di Clive Humby, data scientist e matematico inglese che nel lontano 2006 coniò lo slogan "I dati sono il nuovo petrolio", è ancora oggetto di dibattito. Come fare soldi sui dati, quali sono i campioni di questi nuovi modelli di business e soprattutto quali sono i benefici per il cittadino/utente produttore del dato?

Per la verità i casi di successo sono sotto i nostri occhi: il colosso Google ha sviluppato il proprio modello di advertising proprio su una gestione efficace del profilo e dei comportamenti degli utenti, Uber vende a terzi i dati dei trasferimenti dei propri utenti, le compagnie telefoniche e le carte di credito vendono i dati delle presenze e delle tipologie delle transazioni di acquisto dei propri clienti. Ma forse, uno dei recenti casi più interessanti, è rappresentato dal successo di Amazon Alexa. Da 3 anni è disponibile in Italia con una crescita del 80% ogni anno e, per dare qualche esempio dei volumi, con oltre 280 milioni di ore di streaming fruite nel corso degli ultimi 12 mesi e oltre 5 milioni di ricette consultate (fonte Amazon).

Ma in tutti questi casi ed in molti altri è l’impresa a fare il business sui dati forniti dal singolo cittadino. A fronte del consenso al trattamento del dato viene fornito un servizio personalizzato che ci dovrebbe permettere di soddisfare meglio il nostro bisogno di acquisto o di conoscenza. Ma esistono altri modelli più innovativi e in grado di consentire la monetizzazione a tutti i cittadini?

L’individuo può governare i propri dati

La startup EcoSteer sta promuovendo l’utilizzo di una Data Ownership Platform per consentire lo sviluppo di un’economia etica dei dati. L’idea è di permettere all’individuo di governare i proprio dati tramite una piattaforma basata su blockchain e decidere le policies di vendita attraverso smart contracts. In questo modello non è più un'azienda (banca, utility etc) che vende il dato dell’utente, ma sarà l’utente stesso che deciderà se concedere il proprio dato gratuitamente al proprio Comune o ad una organizzazione no-profit ed invece rilasciare i dati a pagamento verso soggetti terzi commerciali.

La tecnologia blockchain dopo essersi affermata nel mondo delle criptovalute è sempre più utilizzata anche nell’ambito delle applicazioni di notarizzazione. Questo renderà la produzione digitale del dato ancora più interessante e sicuramente aumenteranno le applicazioni che cercheranno di sfruttare questa nuova fonte di big-data.

Il rischio di una deriva verso una sorveglianza di massa

Ma esiste un modo per il cittadino di mettere i propri dati a valore per il miglioramento della qualità dei servizi della propria comunità? A Toronto qualche anno fa era stato lanciato un progetto ambizioso e visionario grazie ad una collaborazione tra la municipalità e Google-Alphabet. L’obiettivo di Sidewalk Labs era trasformare una parte di Toronto in una smart city, ma dopo poco è stato accantonato. Apparentemente le cause sono state addotte all’incertezza economica ma in realtà, dopo una prima fase di entusiasmo, erano aumentate le perplessità e le proteste della cittadinanza per via dell’utilizzo di piattaforme proprietarie nel trattamento dei dati dei cittadini. Così di fronte alla chiusura del progetto Sidewalk Labs l’Associazione canadese per le libertà civili (CCLA) ha parlato di «una vittoria per la privacy e per la democrazia». Le modalità con cui Google attraverso i sensori tecnologici per le strade ed i cellulari avrebbe raccolto dati sugli abitanti (con lo scopo di adattare meglio i servizi alle loro esigenze), aveva generato grosse preoccupazioni in merito alla tutela della privacy. In altre parole, la polemica era cresciuta rispetto al rischio di una deriva verso una sorveglianza di massa finalizzata ad una prevalenza di obiettivi commerciali relativi alla cessione dei dati dei cittadini a terze parti.

Il settore pubblico è impegnato in una governance del dato

I tentativi di trovare il giusto equilibrio fortunatamente non mancano. Nel 2010 la Greater London Authority aveva annunciato l’avvio dell’iniziativa London Datastore, una piattaforma di open-data per condividere dati della città ai fini di trasparenza e rendicontabilità. La piattaforma oggi espone oltre 700 dataset con dati su qualità dell’aria, sicurezza stradale, salute ed edilizia residenziale. Ma giustamente l’autorità londinese non si è fermata qui e nei giorni scorsi è stato annunciato che questa iniziativa evolverà con l’obiettivo di usare i dati per migliorare in tempo reale l’erogazione dei servizi pubblici.

In sostanza si sta passando da un sistema di raccolta dati il cui utilizzo è lasciato alla libera iniziativa di cittadini ed imprese, ad un sistema usato dai decisori pubblici per definire sempre più policies data-driven, fino ad una piattaforma usata per alimentare in tempo reale i servizi pubblici caratterizzandoli in funzione dei dati stessi raccolti. Questo approccio non è molto diverso da quello offerto da Amazon e Google ma la differenza è che la piattaforma è gestita da un soggetto pubblico che si preoccupa di restituire il beneficio ad ogni city-user. Possiamo dire che in questo modo la contribuzione dei dati da parte del cittadino genera valore nella misura in cui produce migliori servizi pubblici, dal trasporto, alla sicurezza, alla salute etc.

A tal riguardo addirittura alcuni enti locali finlandesi e norvegesi stanno esplorando la possibilità di costituire delle data utility, ovvero delle aziende pubbliche con il compito proprio di raccogliere e gestire il dato pubblico creando valore in maniera trasversale per tutti gli stakeholder e servizi della città. Non è ancora chiara la sostenibilità del modello di business ma è interessante sapere che anche i soggetti pubblici si stanno interrogando su come impiegare al meglio questa nuova dimensione di risorse pubbliche a vantaggio dell’intera comunità e non solo di alcune fasce privilegiate di utenti.

Investire non solo in tecnologia ma anche in cultura ed organizzazione

Non possiamo concludere questa riflessione sulle diverse tipologie ed esperienze di monetizzazione dei dati senza sottolineare il tema della tutela della privacy e del crescente bisogno di cybersecurity. L’esperienza del caso Snowden del 2013 e di Cambridge Analytica del 2018 ci hanno mostrato come tutti siamo toccati da questi temi anche se apparentemente non siamo tra i più accaniti utilizzatori della rete. Occorre aumentare la consapevolezza della popolazione e quindi insieme alle soluzioni tecnologiche dobbiamo sostenere percorsi di sviluppo di competenze digitali accessibili a tutti. Non si tratta di spingere le persone verso corsi tecnico-operativi ma di riflettere su come sostenere media, gestori di servizi ed enti pubblici ad investire su processi comunicativi ed educativi che abbiamo un focus sullo sviluppo di queste conoscenze che saranno fondamentali per traghettare i valori della democrazia anche nella nuova società digitale 4.0.

Il tema della cybersecurity è all’attenzione degli addetti ai lavori da diverso tempo, ma i recenti attacchi ad enti pubblici (Regione Lazio, SIAE, Ferrovie dello Stato etc) ed alle grandi imprese (Luxottica, Mediaworld, etc) rischiano di impattare sempre più sulla massa per via del nuovo clima di tensione e del conseguente prevedibile ulteriore aumento dei fenomeni di cyberattacchi. Non possiamo fermare la crescita dell’uso dei big-data ma dobbiamo investire non solo in tecnologia ma anche in cultura ed organizzazione.

In conclusione, la monetizzazione del dato è un fenomeno già in atto, come abbiamo visto con diverse tipologie di beneficiari: le imprese, l’individuo ma fortunatamente anche la collettività. Occorre migliorare la comprensione di queste nuove logiche da parte di tutti per garantire una crescita equilibrata delle opportunità e quindi un impatto positivo sullo sviluppo economico e sociale, evitando azioni che contribuiscono alla crescita della disuguaglianza.