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La climatologa: per capire i cambiamenti in corso bisogna andare in un luogo in particolare

Intervista a Elisa Palazzi, climatologa e professore associato di Fisica del clima all’Università di Torino

Simone Trebbidi Simone Trebbi   
La climatologa: per capire i cambiamenti in corso bisogna andare in un luogo in particolare

Siccità, ondate di calore ed eventi estremi potrebbero diventare la normalità, causando pericoli diffusi e mettendo a repentaglio interi ecosistemi con ripercussioni per l’intero genere umano.

I cambiamenti climatici cominciano a fare sempre più paura e raggiungono una concretezza mai toccata prima, come emerge dal nuovo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ''Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability''.

Ma è nelle montagne, considerate delle vere e proprie sentinelle del cambiamento climatico, che gli effetti a breve, medio e lungo termine sono più evidenti.

In virtù dell’altitudine a cui si trovano, infatti, rispondono con straordinaria rapidità e in modo amplificato alle fluttuazioni climatiche.

Quali sono le prospettive future? E come è possibile intervenire concretamente?

Tiscali News ne ha parlato con la climatologa Elisa Palazzi, classe 1978 e professore associato di Fisica del clima all’Università di Torino.

Le sue ricerche riguardano lo studio del clima e dei suoi cambiamenti nelle regioni di montagna, in particolare le Alpi, la catena Himalayana e l’altopiano tibetano, per capire quali siano i fattori che influenzano lo stato dei ghiacciai e la disponibilità futura di risorse idriche.

Svolge inoltre attività di divulgazione con laboratori su clima, energia e ambiente, conferenze e seminari rivolti a diverse tipologie di pubblico e a studenti.

Elisa Palazzi, in che modo il cambiamento climatico sta cambiando le montagne?

"Le montagne rappresentano degli indicatori straordinari del cambiamento climatico e del riscaldamento globale.

Vere e proprie “sentinelle”, sono in grado di mostrarci nitidamente e in modo facile da percepire gli effetti dell’aumento delle temperature.

I principali indicatori che ci offrono riguardano innanzitutto il ritiro dei ghiacciai.

Questo è probabilmente l’aspetto più visibile per chiunque abbia avuto, nell’arco della propria vita, una frequentazione regolare delle montagne.

I cambiamenti nella copertura glaciale sono infatti così tangibili che la diminuzione nell’estensione, nella massa e nel volume dei ghiacciai è visibile a occhio nudo, in quanto particolarmente sensibili all’aumento delle temperature.

Anche lo spessore, la diminuzione nella permanenza e l’estensione del manto nevoso è un segnale molto chiaro.

La neve cade meno, la precipitazione solida è minore come frazione della precipitazione totale rispetto al passato, e soprattutto cade a quote sempre più elevate accumulandosi meno.

La stagione della neve, quindi, dura meno poiché inizia più tardi e finisce prima, con una fusione sempre più anticipata.

Le conseguenze sugli ecosistemi montani, come anche a valle, non si limitano ad essere cambiamenti fisici, ma presentano anche ripercussioni sugli aspetti economici e sociali sulle nostre vite e sulla nostra salute.

Un’altra conseguenza del riscaldamento globale sulle montagne è senza dubbio l’estremizzazione degli eventi estremi.

Questo, che potrebbe sembrare un gioco di parole, è un fattore tragico che in montagna viene addirittura amplificato rispetto ad altre realtà.

Assistiamo quindi a un fenomeno apparentemente contrastante in cui la scarsità di precipitazione, inclusa quella solida, si traduce in periodi di siccità ma anche di precipitazioni intense.

Ciò significa che, pur piovendo meno, la pioggia si concentra tutta assieme in momenti precisi.

La siccità può facilitare la propagazione degli incendi in montagna, così come le alluvioni generano rischi al territorio e alle popolazioni là dove c’è esposizione.

Altre conseguenze potrebbero apparire meno visibili a chi non maneggia dati scientifici, ma non per questo meno preoccupanti.

In particolare sono legate alla diminuzione della biodiversità: le montagne per loro natura ne sono un grande concentrato, ma stiamo assistendo a una diminuzione o addirittura estinzione nelle specie esistenti, pensiamo ad alcune tipologie di farfalle nelle alpi italofrancesi.

Questo avviene perché le condizioni ambientali non sono più favorevoli alla sopravvivenza delle specie, ed esistono veri e propri sfasamenti negli ecosistemi per cui le componenti non reagiscono sincronicamente a una perturbazione esterna determinando un malfunzionamento generale.

Inoltre le specie montane tendono ad andare verso quote maggiori per compensare l’aumento delle temperature ma questo non è sempre possibile, e le specie che si trovano già in vetta tendono ad estinguersi per assenza di altri posti in cui andare.

Un esempio classico tra i tantissimi possibili è quello della pernice bianca, che vive nelle praterie alpine e ha la capacità di cambiare il proprio pelo mimetizzandosi con l’ambiente (bianca come la neve d’inverno e grigia come la roccia durante l’estate).

Avendo iscritte nel suo DNA le tempistiche esatte con cui compiere questo cambiamento d’abito, tende ormai a diventare bianca in autunno, prima della caduta della neve, diventando estremamente visibile per i rapaci che la predano.

Questo ne determina un forte crollo nel numero della popolazione".

Elisa Palazzi, climatologa e professore associato di Fisica del clima all’Università di Torino

Le persone possono fare qualcosa di concreto nella propria vita di tutti i giorni?

"La mia impressione è che per contrastare al meglio il cambiamento climatico occorrano conoscenza e consapevolezza del problema.

Una conoscenza che non dovrebbe basarsi esclusivamente su cifre e grafici, ad appannaggio degli scienziati ed esperti del settore, quanto piuttosto sull’empatia.

Che si basi, cioè, sull’entrare in contatto con quegli ecosistemi di cui stiamo osservando le trasformazioni; è una capacità, quella di sentirci al 100% immersi in un ambiente, che abbiamo decisamente perso.

Questo si rivela poi doppiamente vero in montagna, un ambiente da cui l’uomo trae estremo benessere perché stimola i sensi e ci dà una percezione dei nostri limiti, ed è lì che sentiamo più intensamente il contatto con la natura.

Per fare azioni quotidiane che ci avvicinino sulla giusta strada per affrontare e risolvere il problema, ritengo fondamentale andare a guardare cosa sta succedendo con i propri occhi.

L’esperienza diretta è quella che ci permette di sentirsi maggiormente parte della natura stessa, e una visione dell’essere umano come entità non staccata o alienata dagli ecosistemi ci manca.

Mentre pensiamo di essere altro rispetto al mondo in cui viviamo, siamo in realtà parte integrante degli ecosistemi.

Parlando del concetto di “One Health”, salute unica, ci riferiamo proprio a questo: dalla salute dell’ambiente dipende la nostra.

Il modo migliore per interiorizzarlo è sperimentarlo in prima persona, sentire che la problematica ci entra nella pelle.

Essendo la montagna accessibile a tutti, il miglior gesto possibile è quello di andarci e guardare lo stato di salute dei ghiacciai o cercare fotografie d’epoca che consentano un raffronto concreto tra ieri e oggi.

Questo è senza dubbio un modo efficace per fare esperienza diretta del cambiamento climatico".

Cosa accadrà alle Alpi nel vicino e nel lontano futuro? 

"Tutte le montagne in generale, e quindi anche le nostre Alpi, sono veri e propri hot spot climatici e tra gli ecosistemi che in assoluto più risentono degli effetti del cambiamento climatico e del surriscaldamento globale, che in alta quota è addirittura amplificato.

Le montagne si stanno riscaldando a un tasso doppio rispetto alla velocità media che ha colpito il mondo, e questo accade per una serie di meccanismi fisici ben precisi e particolari tra cui la reazione ghiaccio-albedo: mano a mano che il ghiaccio e la neve scompaiono per effetto del riscaldamento, si liberano porzioni di suolo scuro (prima coperte da superfici bianche) in cui la radiazione solare viene assorbita con più facilità anziché essere riflessa come accade in presenza di neve e ghiaccio.

Questo assorbimento comporta un ulteriore riscaldamento del terreno e dell’aria sovrastante aumentando notevolmente, di fatto, il riscaldamento iniziale.

Oltre agli effetti che già possiamo constatare, come un ritiro della superficie dei ghiacciai italiani pari 50% dal 1980 a oggi, c’è anche una forte incertezza sulle prospettive future.

La situazione potrebbe peggiorare poco o molto a seconda di come agiremo come società attraverso le nostre emissioni e scelte economiche, politiche ed energetiche.

Il futuro delle Alpi dipenderà molto dallo scenario che verrà a crearsi.

Molti degli indicatori che vengono analizzati per tracciare una possibile evoluzione della problematica, in primis la linea di equilibrio dei ghiacciai che definisce il passaggio tra zona di crescita e zona di recessione del ghiacciaio stesso, ci dicono che probabilmente questo valore potrà innalzarsi di quota da un minimo di 100 a un massimo di 700 metri.

Questa linea, però, definisce anche la zona e lo spazio che i ghiacciai hanno per sopravvivere.

Se la linea di equilibrio dei ghiacciai sulle Alpi si innalzerò di circa 100 metri entro fine secolo, il 31% dei ghiacciai attualmente esistenti potrà sopravvivere.

Nello scenario migliore, dunque, il 69% dei ghiacciai scomparirà.

In quello peggiore, ad alte emissioni, a sopravvivere sarà soltanto l’8%.

A livello medio globale si stima che dopo il 2100 rimarranno in vita solo i ghiacciai situati al di sopra dei 3500 metri.

Il futuro della nostra vita sul pianeta dipenderà molto dalle scelte che facciamo oggi".

L'Italia sta rispondendo adeguatamente alla sfida climatica? 

A livello nazionale e globale esistono contesti internazionali in cui si cerca di definire una strategia di azione comune per contrastare il cambiamento climatico, al momento individuata in due strade principali: la mitigazione e l’adattamento.

Mitigare il surriscaldamento globale significa agire concretamente sulla causa che l’ha generato, ovvero le emissioni di gas a effetto serra derivanti dalla produzione di energia ottenuta da fonti fossili, dall’agricoltura e dagli allevamenti intensivi e dalle modalità con cui ci spostiamo, mangiamo e costruiamo.

L’adattamento, invece, consiste nel tamponare gli effetti già visibili.

Delle contromisure sono già state prese, d’altronde si parla di questa tematica sotto il profilo scientifico già da diversi decenni, e nonostante l’azione globale sia stata lenta e ricca di inerzia qualcosa è stato fatto.

I grandi errori che sono stati fatti, e che si continuano a perpetrare, rimangono secondo me l’aver sottovalutato il problema spesso concepito come lontano nel tempo e nello spazio e l’assenza di un piano strutturale.

Stiamo assistendo proprio ora a periodi di grandi di siccità, interpretati come emergenze e che porteranno quindi a misure emergenziali.

Le soluzioni da mettere in campo, al contrario, dovrebbero essere di natura strutturale.

Ciò che è stato fatto, anche in Italia, risulta tuttora poco incisivo e poco deciso, mentre occorrerebbe puntare in maniera assolutamente prioritaria sulle energie rinnovabili e sviluppare la visione di un problema che non rappresenta più un’emergenza ma una vera e propria crisi globale.

E che, come tale, richiede un impegno di tutti i Paesi nel contesto di una strategia unica.

Se affrontato ora, il problema può ancora essere contrastato con una certa efficacia e darà effetti benefici a lungo termine che convengono a tutti.

La mitigazione a livello mondiale e l’adattamento, che si adatta agli impatti nei singoli luoghi dove il riscaldamento può dare effetti diversi, sono in definitiva le strade da perseguire per affrontare questo dramma".

Simone Trebbidi Simone Trebbi   
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