[Intervista] “Vi racconto l’India e di come ho cambiato il microcredito di Yunus”
Tiscali News ha sentito Luca Streri, fondatore di Semi Onlus International e del movimento Mezzopieno. Con lui ha parlato di India, induismo, caste, globalizzazione, povertà, microcredito, formazione, pensiero positivo e della necessità di guardare il mondo con uno sguardo diverso
L’innovazione non è solo un fenomeno tecnologico ma un processo sociale in cui giocano un ruolo fondamentale anche fattori economici e finanziari. La rivoluzione industriale inglese avrebbe avuto un impatto molto minore senza lo sviluppo della borsa valori di Londra e la nascita delle società di capitali. La storia che raccontiamo oggi parla di microcredito, uno strumento finanziario inventato dall’economista e premio Nobel bengalese, Muhammad Yunus. Il protagonista del racconto è però un economista italiano, Luca Streri, che 16 anni fa, all’età di 32 anni, ha lasciato il suo lavoro in banca a Ginevra per andare ad occuparsi di microfinanza in India. Ma anziché limitarsi a replicare i sistemi introdotti da Yunus ha introdotto importanti innovazioni, per migliorare l’efficacia di uno strumento che può cambiare il destino del secondo paese più popoloso al mondo. Tiscali News ha deciso di sentirlo.
L’India è un paese di grande cultura ma anche di grande povertà. Quali sono le cause?
“E’ un fenomeno complesso perché arriva da lontano. L’India ha sempre avuto una religione e una cultura che impedisce a certe categorie di emanciparsi: l’induismo e il sistema delle caste. Quelle più basse non sono autorizzate ad accedere a un miglioramento della vita, perché per la legge del karma bisogna morire come si nasce. Questo fa sì che i ricchi rimangano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ci sono delle grandissime e storiche concentrazioni di ricchezza. Una volta erano i maragià, adesso sono i latifondisti, persone che posseggono tutti i terreni e i capitali. Sono ovviamente pochissimi e appartengono alle caste alte. Quelli alla base della piramide non possono né sposarsi né fare affari con le altre caste. Possono farlo solo tra loro e questo fa sì che chi nasce povero resta povero. Non ha altre possibilità e neanche le vuole”.
L’India è considerata la più grande democrazia del mondo. Ufficialmente il sistema delle caste è stato abolito nel 1947, anno in cui il paese ha ottenuto l'indipendenza. Mi sembra di capire che in realtà nulla è cambiato. Le caste esistono ancora.
“E’ proprio così, esistono ancora anche se non ufficialmente”.
La globalizzazione che effetti sta producendo in India? Positivi o negativi?
“Sta amplificando le differenze sociali che ci sono, perché sta portando ricchezza solo a chi ha accesso allo studio. Per esempio sta portando opportunità di lavoro per i ragazzi che si laureano. Tantissimi ingegneri e medici indiani stanno andando a lavorare all’estero. Non sta portando invece ricchezza all’interno della nazione, perché la produzione indiana non è tanto esportata. C’è un mercato interno abbastanza importante perché l’India ha 1 miliardo e 200 milioni di abitanti ma non è un paese molto connesso con il resto del mondo. Pochi stranieri aprono aziende. Le uniche eccezioni sono le città di Hyderabad e Bangalore. La prima è diventata un centro molto importante di call center e di back office delle banche internazionali, la seconda invece ha visto nascere tantissime software house. Ma nel resto del paese la presenza di aziende straniere non è significativa. L’impatto della globalizzazione è prevalentemente quello di portare via il capitale intellettuale”.
In quale parte dell’India sei andato a vivere?
“Sono a 300 km da Hyderabad, nello Stato dell’Andhra Pradesh che si affaccia sul golfo del Bengala. Vivo in una zona rurale poverissima, molto secca e arida con temperature che nella stagione più calda arrivano fino a 50 gradi. E questo è uno dei motivi che mi spingono a passare una parte dell’anno in Italia, a Torino che è la mia città. Lavoriamo con le tribù che sono addirittura fuori dal sistema delle caste in quanto considerati impuri. Non possono quasi entrare in città, sono visti malissimo dagli altri e isolati da secoli”.
La religione è ancora sentita in India oppure è un mondo secolarizzato come l’occidente?
“E’ ancora sentita ma naturalmente dove arriva il benessere la religione si perde. Nelle grandi città la religiosità sta diminuendo ma ci sono differenze tra le varie regioni. Nel nord dell’India l’induismo è rimasto molto più forte, nelle altre regioni si sta un pochino indebolendo però la spiritualità è ancora molto sentita. La gente considera la fede come l’elemento principale anche perché quando si è molto poveri spesso è l’unica cosa a cui aggrapparsi per dare un senso alla vita. C’è dunque un processo di secolarizzazione ma molto più lento che in altri paesi del mondo”.
Veniamo a te, di cosa ti occupi esattamente in India?
“Ho aperto una missione che si occupa di sviluppo economico. Inizialmente sono partito con l’obiettivo di lavorare con il microcredito ma ci siamo subito accorti che dare soldi in prestito ai poveri indiani non è abbastanza. Senza alfabetizzazione e cultura i soldi dati alle persone rischiano di essere sprecati. Abbiamo perciò deciso di fare un passo indietro per lavorare anche alla costruzione di altri strumenti come l’educazione, le strutture idriche e quelle per la sanità”.
Come si chiama la missione?
“Il programma si chiama Arbor che è anche il nome della fondazione che finanzia gran parte delle cose che facciamo”.
Quante persone sono coinvolte nel programma?
“Le persone dei villaggi quest’anno sono 8 mila ma ogni anno cambiano. In certi anni siamo arrivati anche a 15 mila. La missione ha alle spalle già 16 anni di programmi, complessivamente abbiamo superato le 100 mila persone. A livello gestionale invece ci sono una sessantina di indiani e un gruppetto di italiani che hanno il compito di coordinare le varie operazioni”.
Il microcredito è stato inventato dall’economista Yunus. Come funziona?
“Yunus lo ha concepito come un piccolissimo prestito, sull’ordine di qualche decina di dollari, che più o meno è lo stipendio mensile di un bracciante indiano, concesso senza nessuna garanzia a persone che normalmente non potrebbero accedere a nessun tipo di prestito perché non conoscono e non sono conosciuti dal sistema bancario. Non possono garantire nulla perché non hanno un lavoro e non hanno dei beni e spesso sono anche analfabeti, quindi non potrebbero firmare neanche i documenti. Il prestito viene concesso solo sulla base della fiducia, per poter avviare delle piccole attività generatrici di reddito”.
Tu però hai apportato delle innovazioni rispetto a questo schema Quali sono stati i cambiamenti?
“La prima è che Yunus concede i prestiti immediatamente. La priorità è la rapidità. Quello che ho notato io è però che se queste persone non si formano un po’ rischiano di usare male i soldi presi in prestito. Lo stesso Yunus ha riconosciuto l’esistenza di questo problema. Lui ha iniziato in Bangladesh e si è accorto che tutti compravano una capretta perché era facile. Il risultato però è stato una inflazione del latte di capra e quindi a livello economico c’è stato un boomerang. Io ho capito che prima di tutto bisogna avere nei villaggi dei progetti diversificati e poi che bisogna spiegare alle persone come usare correttamente i soldi. Per un anno non diamo soldi ma creiamo un programma formativo finalizzato a creare delle capacità, con la promessa di erogare il prestito. Perciò il primo investimento che facciamo è in formazione. La seconda differenza con il programma di Yunus è poi che il nostro prestito è solidale e non individuale. Diamo cioè il prestito a un gruppo spontaneo di 10/15 persone che noi stimoliamo a creare. Tutti insieme ricevono il prestito e tutte insieme devono restituirlo in modo da far sì che non siano solo i più in gamba ad andare avanti, ma al contrario che siano quelli più fragili ad essere aiutati e sostenuti”.
Prima hai parlato della necessità di creare i giusti presupposti culturali. Ci puoi fare un esempio concreto?
“Uno che può sembrare strano a noi occidentali è il risparmio che nei programmi abbiamo introdotto come obbligatorio. Proprio per questo motivo io preferisco parlare più di progetti di microfinanza che non di microcredito. Una persona che passa dal non avere nulla e vivere solo di baratto al gestire una piccola attività deve avere ben chiaro in testa il valore del risparmio, altrimenti rischia di perdere tutto. Il primo anno oltre a fare la formazione noi stimoliamo le persone a risparmiare anche solo una piccolissima frazione del loro reddito, per esempio una rupia. Alla fine di ogni mese raccogliamo i risparmi di tutto il gruppo e li versiamo in un conto corrente bancario che noi abbiamo aperto. Nel giro di un anno il gruppo può dunque crearsi un piccolo capitale che può essere dato come garanzia del primo prestito che sarà erogato. E’ solo una piccola parte di quello che riceveranno ma importante per creare una mentalità. Quando il gruppo lascerà il programma, il capitale risparmiato sarà da noi restituito con tutti gli interessi maturati nel tempo”.
Come mai non hanno il valore del risparmio?
“Perché è una società che vive di baratto e il baratto non prevede risparmio. Sono beni della terra che vanno usati subito. La natura non prevede un risparmio perché la roba va a male”.
In questi anni non ti sei limitato a lavorare solo in India ma hai avviato attività importanti anche in Italia fondando Mezzopieno. Di cosa si tratta?
“E’ un movimento che fa capo a una associazione che si chiama Semi Onlus che è la stessa che opera in India. Mezzopieno nasce dopo le prime esperienze di vita con le tribù dell’Andhra Pradesh e dalla constatazione che le persone pur non avendo niente vivono tutto sommato serene. In Italia invece la gente si lamenta continuamente. Così io e i miei collaboratori abbiamo iniziato ad organizzare delle conferenze per spiegare le condizioni di vita degli indiani e abbiamo capito che noi italiani abbiamo una percezione del mondo distorta dal nostro benessere. Abbiamo tanto ma non ce ne rendiamo conto e chiediamo sempre di più. Abbiamo perciò deciso di lavorare per aiutare le persone qui in Italia a cambiare il proprio sguardo per vedere il bicchiere mezzo pieno che è diventato il nome del movimento. Abbiamo iniziando creando un blog di sole buone notizie: storie di aziende che assumono, di malati che guariscono, di persone che riescono a superare le difficoltà e ad avere successo. Il blog è diventato virale e nel giro di pochi mesi ha avuto migliaia di lettori. Questo ci ha fatto capire che l’idea funzionava e abbiamo deciso di farlo diventare un movimento”.
Quali sono le attività più importanti del movimento?
“Portiamo la positività nelle scuole, nei comuni, nelle aziende, negli ospedali, nelle università. Lo facciamo con diversi programmi accomunati dall’idea di trovare il bello che c’è senza voler costruire chissà che di nuovo, imparare a vivere la vita con quello che c’è ed essere più grati, più collaborativi e più fiduciosi”.
Ci puoi parlare dei programmi che portate avanti?
“Nelle scuole aiutiamo gli studenti a creare delle redazioni per realizzare un tg di buone notizie. Il format prevede la realizzazione di un video giornale in cui i ragazzi raccontano ciò che di bello emerge nel mondo, in Italia e nel proprio territorio. Abbiamo poi dei laboratori della positività che portano il nostro messaggio in vari contesti, compreso le aziende. Facciamo formazione a diversi livelli per creare modelli e relazioni positive. L’’obiettivo è sempre lo stesso: cambiare lo sguardo. E per farlo ci appoggiamo a modelli psicologici ormai consolidati come quello della psicologia positiva”.
Una persona che vuole far parte del movimento Mezzopieno ed eventualmente anche sostenere la vostra missione in India cosa deve fare?
“Per il movimento abbiamo pensato di creare qualcosa che non fosse troppo strutturato ma che lasciasse la libertà più genuina alle persone. Non ci sono membership o quote associative ma solo l’adesione a un manifesto ideologico della positività che enuncia i nostri punti ovvero i valori in cui ci riconosciamo. Chiediamo alle persone che li condividono semplicemente di aderire firmando il manifesto. Da quel momento si è membri di Mezzopieno senza bisogno di nient’altro se non l’impegno di trasmettere positività nei propri luoghi di vita. Se poi qualcuno ha il piacere di entrare nei nostri programmi allora può aderire ai tanti percorsi che organizziamo scegliendo quello in cui ci si trova meglio”.
Le informazioni sul manifesto e sui percorsi si trovano online?
“Esatto, sul sito mezzopieno.org”.
Per quanto riguarda invece le donazioni?
“Per capire meglio invece cosa facciamo in India ed eventualmente per sostenere le nostre iniziative si può andare sul sito di semionlus.org o anche di arborfoundation.net”.
Viaggiando continuamente tra Italia e India hai la possibilità di capire meglio di altri le differenze tra le varie parti del mondo e gli effetti della globalizzazione. Sei ottimista o pessimista sul futuro del mondo?
“Avendo fondato Mezzopieno non posso che essere positivo, ma lo sono sulla base di elementi oggettivi. Rispetto al passato siamo molti di più sul pianeta e la qualità della vita è estremamente migliore. La fame è un argomento che coinvolge molte meno persone di una volta e non ci sono più guerre. Le disuguaglianze esistono ancora ma sono migliorate. Fino a 200 anni fa c’era ancora la schiavitù. Basta studiare la storia per vedere che il mondo evolve verso il bene ma l’occhio non deve essere miope e guardare solo l’arco temporale della propria vita, che è un periodo limitato rispetto alla storia complessiva dell’uomo. E’ vero che ci sono delle cadute ma queste devono essere opportunità per uscirne sempre più forti, con maggiore consapevolezza e minori disuguaglianze. Questi aspetti Mezzopieno li fa notare tutti i giorni nel proprio blog, pubblicando statistiche e analisi che confermano un miglioramento nel tempo di tutti gli indicatori di benessere del mondo”.