ITW 2021, la situazione in Italia e i principali trends del futuro: intervista ad Andrea Basso

Non solo start up e Open Innovation, ma anche robot scultori e assaggi di carne stampata in 3D, musica e AI

Foto Andrea Basso
Foto Andrea Basso
di Matteo Grussu

A Torino è andata in scena, presso le Officine Grandi Riparazioni (OGR), l'Italian Tech Week 2021. Non solo start up e Open Innovation, ma anche robot scultori e assaggi di carne stampata in 3D, musica e AI; con la chiusura dei lavori è tempo di tirare le fila del discorso e capire a che punto siamo in Italia. Ne abbiamo parlato con Andrea Basso, advisor di Progress Tech Transfer Fund, presidente e co-founder del SIDI (Swiss Institute for Disruptive Innovation) che dal 2015 analizza le tecnologie e i principali trends che presentano un forte potenziale disruptive.

L’Italia è la quarta economia europea, tuttavia risulta indietro per raccolta di capitali, nell'occupazione femminile, dei giovani e degli stranieri. Oggi il PNRR può rappresentare una possibilità se non per colmare, almeno per diminuire il divario con i leader mondiali dell’innovazione?
In Italia non manca la creatività, il livello di capacità di innovazione e buono e le idee ci sono. Il problema nasce nella fase successiva, riguarda la parte di execution, ossia la possibilità per queste idee di essere sviluppate e portate a fruizione attraverso uno sviluppo industriale e una valorizzazione economica. Le ultime iniziative, da ITAtech al Fondo Nazionale per l'innovazione, stanno colmando alcune lacune e aiutando le idee innovative made in Italy a fare il primo passo, farle uscire dalle università e dagli enti di ricerca e introdurle al mercato. Manca, però, il passo seguente, in cui occorre fare investimenti oltre al seed iniziale; l'Italia lì è carente, per due ragioni: non ci sono i meccanismi appropriati e da parte degli investitori c'è ancora molta cautela, anche perché manca la cultura del rischio rispetto ad altri paesi (Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Germania).

Ha intravisto in qualche start up o azienda presente, qualcuna che avesse un potenziale disruptive?
Esistono sicuramente realtà italiane con un forte potenziale disruptive. Penso per esempio a Finapp - nata nel 2019 come spin-off dell'università di Padova - che ha sviluppato una sonda per misurare l'umidità del terreno, misurando i neutroni liberi nell'aria. È veramente disruptive perché risolve il problema delle misurazioni dell'umidità su ampie superfici in maniera economicamente molto efficace e tecnicamente molto precisa rispetto alle sonde nel terreno. Oppure Energy Dome, nata sempre due anni fa, che ha sviluppato un sistema di accumulazione di energia che utilizza la CO2; sistema innovativo che sta crescendo in maniera molto significativa. Infine, in campo medico, Deep Trace Technologies - fondata nel 2018 da Isabella Castiglioni, docente all’Università di Milano-Bicocca - che applica l'intelligenza Artificiale al biomedicale. Ha ottenuto la marcatura CE per il suo primo dispositivo medicale, Trace4AD, un sistema di supporto alla diagnostica capace di identificare soggetti a rischio di Alzehimer con due anni di anticipo.

Quali sono i mega trends futuri? La Pandemia ha impresso dei cambi di rotta?
Il COVID_19 ha fatto emergere come le politiche di austerità si siano rivelate più negative che positive, c'è dunque un rilancio degli investimenti e della ricerca. Tuttavia, nonostante la Pandemia, è il tema della  Crisi Climatica quello tra tutti i trends il più rilevante.  Copre molte tecnologie: dal recupero e cattura della CO2 ai nuovi materiali ecosostenibili, passando per i nuovi processi sostenibili che rientrano nell'economia circolare.  Altro settore che sta diventando sempre più dominante e pervasivo è l'applicazione dell'Intelligenza Artificiale. L'industria 4.0, invece, è il trend che sul lungo termine avrà gli effetti più significativi perché tocca tutti i processi industriali, dal manufacturing al retail.

Qual è l'elemento che fa la differenza nel creare i talenti del domani?
Più che crearli bisognerebbe riuscire a trovarli! Il processo di innovazione è molto veloce e ha una portata globale. L'educazione e la formazione non riescono a seguire questo processo, in particolare in Italia, dove c'è un gap enorme tra l'offerta formativa e la domanda che arriva dalle aziende. I talenti che alla fine emergono sono quelli che hanno avuto la capacità e l'intuizione di costruirsi da soli questa formazione, spesso all'estero, facendo esperienza e lavorando in team diversificati e internazionale. Team e apertura a 360 gradi, sono elementi decisivi.

Da investitore dove punterebbe e da lavoratore in che cosa si specializzerebbe?
Da investitore - e questa è la scelta che abbiamo fatto anche come SIDI – punterei sulla sostenibilità. È il tema dominante, ma anche un approccio orizzontale a tante tecnologie che contribuiscono all'innovazione. Da lavoratore, ugualmente, ritengo che la scelta strategica sul medio e lungo termine sia la sostenibilità, soprattutto in settori come quelli biofisico e biochimico. Punterei anche sull'Intelligenza Artificiale, per quanto ancora nella sua infanzia, si sta evolvendo verso modelli più efficaci e quando succederà porterà a un cambio radicale.

Il SIDI ha creato i Competence Center nel 2015. In Italia se ne inizia a parlare solo oggi con il Piano Industria 4.0, cosa pensa?
I Competence Center e i Cluster industriali in Europa si sono sviluppati, oggi sono quasi più di 3mila nei diversi settori e impiegano forse più di 50 milioni di persone. Si tratta, però, di uno sforzo europeo che non è ancora sistematizzato e l'Italia è sempre stata restia. Questo perché gli imprenditori italiani hanno una certa difficoltà a passare da un approccio individualistico a uno di tipo collaborativo, spesso hanno difficoltà (e forse nemmeno i mezzi) per capire quali sono i vantaggi. Pensiamo ai vantaggi dell'Open Innovation, che fornisce gli strumenti per permettere alle aziende di collaborare insieme, di gestire la proprietà intellettuale di ciascuno  e al tempo stesso fornisce una base per poter sviluppare ulteriormente la tecnologia. Questo è un aspetto che ancora non fa parte del DNA italiano, anche se esistono ottimi esempio in varie regioni italiane tra cui  l’Emilia e il Veneto, sopratutto nel settore dell'agritech.